mercoledì 6 dicembre 2017

BRAD "Shame" (1993)





1. "Buttercup"
2. "My Fingers"
3. "Nadine"
4. "Screen"
5. "20th Century"
6. "Good News"
7. "Raise Love"
8. "Bad For The Soul"
9. "Down"
10. "Rockstar"
11. "We"


Il chitarrista dei Pearl Jam Stone Gossard dà vita a questo progetto insieme all'amico Shawn Smith (già nei Stachel e nei Pidgeonhead e che si occupa di voce,pianoforte,tastiere e chirarre aggiuntive) e Regan Hagar (batterista anche lui nei Satchel,ma prima ancora nei Malfunkshun di Andy Wood,Leader e cantante dei futuri Mother Love Bone dove militerà anche Gossard insieme a jeff Ament,poi 'creatori dei Pearl Jam) e con l'aiuto del bassista Jeremy Toback (anche all'organo e alla voce).

Quando questo disco fece capolino nei negozi di musica,molti non lo cagarono nemmeno di striscio.

"Cazzo ce ne frega del chitarrista dei Pearl?A noi interessano i Pearl!!!"...questa era un po' la sostanza dei commenti dei miei coetanei appena sedotti da "Ten" e che vedevano in Eddie Vedder il messia figo e carismatico che ci avrebbe salvati tutti dalla depressione...a me invece aveva colpito il singolo di "20th Century" (video della settimana su VideoMusic...che ve lo dico a fare...la grande M Verde era sempre lì pronta a regalare chicche!!!),soprattutto mi incuriosiva sia la vena funk dell'album,che la voce molto Stevie Wonder di Shawn Smith,che mi intrigava non poco.

I soldi erano quelli che erano,così riuscii a farmi duplicare una cassetta di questo "Shame",e ne rimasi colpito subito.

Niente Pearl Jam,niente grosse chitarre e ritmiche pulsanti,niente martelli degli dei alla Zeppelin,nè quadropheniane suite o urla e ruggiti fragorosi...anzi,semmai tutto l'opposto...suoni tenui,qualche virata funk grazie al basso sempre in impennata di Toback,e Gossard quasi relegato in secondo piano,perchè davanti ci sono le doti pianisctiche (limitate certo,ma d'effetto) e la voce del buon Shawn,mentre Regan Hagar,oltre ad allestire una copertina quassi inquietante (ma anche curiosa) fa il suo sporco lavoro di gregario dietro ai tamburi senza strafare e senza però perdere mai la misura del suo drumming.

Un disco semplice insomma....beh,ora...semplice...non proprio.

Casomai "Shame" è un album che si rivela essere un'ottimo esempio di come una band lavori insieme sfornando 11 buonissime tracce senza per forza dover tirare fuori dal cilindro il coniglio-hit senza il quale non si vive.

Anzi,proprio perchè l'album non è eclatante e non brilla per la sua potenza (bensì per i suoi arrangiamenti minimali ma azzeccati più che mai),si respira un'aria intima,familiare e delicata.

Sembra di entrare in una di quelle case abbandonate dove ogni stanza può raccontare una storia.

"Buttercup" si occupa dell'apertura,ed è un salotto,immerso in un pomeriggio da dopo pioggia,dopo un temporale autunnale,dove oltre le finestre si vede quella linea rossa che scende nel viola,e dove affiorano i ricordi di una relazione finita...la voce di Shawn Smith è sottile,soul,mentre Gossard si occupa di accompagnare con la chitarra una frase tastieristica soffusa e che ogni tanto brilla di lampi che attraversano le tende,finchè il vento,di un caldo quasi inusuale,si insinua tra le parole e la batteria appena accennata di Regan Hagar.

Si passa a "My Fingers",ci troviamo in cortile,in un momento di risa e di caleidoscopi invernali,in mezzo ad altalene che dondolano al ritmo di un'incalzante sezione ritmica che confeziona la song più dura di tutto l'album,supportata magnificamente da un riff di Gossard che non lascia fiato neppure nella strofa in cui la voce di Smith si fa 'sommersa' da un flanger sinistro e molto ' rock '90 '.

"Nadine",col suo funk (qui sì,c'è tutto Stevie Wonder!) guidato dal basso di Jeremy Toback,ci porta in camera da letto,in momenti urbani e mattinieri,dove dalla finestra si osserva il traffico e ci si tira i cuscini come bambini,dove scene si ripetono nella mente,nel tentativo di dimenticare,di essere al di sopra di tutto,nel tentativo di trovare un posto ove riposare.

Si passa per il bagno,davanti allo specchio,dove la riflessione cupa di "Screen",sorretta da un giro che potrebbe ricordare i Mother Love Bone (ma molto più soul),ci porta dentro un turbine di solitudine,un'introspezione sull'autogiustificazione,su un qualcosa che si è perso,su un modo di essere e di affrontare l'oscurità di uno schermo che non riflette più la realtà.
Forse la canzone più sentimentale del disco (un'assolo di Gossard da lacrime e dolore che fa rizzare la pelle),e che ci porta in garage,in una vecchia sala prove oramai piena di foglie e polvere.

E qui arriva "20th Century",un granitico funk rock sorretto magistralmente dalla coppia Toback-Gossard e dalle percussioni di Bashiri Johnson (ospite in tutto l'album) unite alla quadratissima batteria di Hagar e che fanno da tappeto a Smith ed al suo invito a guardare al ventesimo secolo,nonostante non sembri ci sia nulla da guardare al di là del domani prossimo.

Si ritorna in casa,in cucina,dove "Good News",dall'atmosfera intima e familiare,mostra il lato più seventies della band in una ballad davvero riuscitissima,dove Gossard singhiozza la sua chitarra senza sopraffare la bella intesa di piano e batteria...una scena musicale delicata dove abbiamo a che fare con la figura della donna come riferimento al cambiamento,un esempio per riprendere la propria vita in mano.

Dalla cucina si passa ad un solaio illuminato e all'incitamento all'amore di "Raise Love",canzone energica e dominata dalla chitarra di Gossard che spinge Smith a una bella prova vocale,per non parlare dell'ottimo incastro tra il basso di Toback e le percussioni di Johnson.Di sicuro è la canzone più solare,connubio di groove e melodia più riuscito dell'album,dove Gossard,forse,si ricorda di essere anche il chitarrista dei Pearl Jam richiamando un po' "Stop" dei Jane's Addiction.

E si riattraversano i corridoi,in una mattinata un po' stordita al ritmo di "Bad For The Soul",dove per un minuto o giù di lì i Brad si travestono da gruppo supporto di Bette Davis e ci portano nello scantinato.

La band qui si scambia gli strumenti e confeziona la canzone più oscura del lotto.

"Down",composta e cantata da Jeremy Toback,si insinua in un mattino freddo,tra scheletri negli armadi,demoni della droga,soffusi pensieri appesantiti da un plumbeo organo e da rumori esterni,in una specie di atmosfera sospesa e quasi irreale...dallo scantinato si intravede la luce che filtra attraverso le piccole finestre....e allora si risale,si risale a ritmo dell'ironica e grottesca "Rockstar" che trasforma l'idea di rockstar in una specie di zombie robot che pronuncia le solite frasi fatte ed è pronta a salvarci come Gesù.

Ma si intravede la luce,più si sale e più la luce si fa intensa,così come sul ritmo di "Rockstar" si insinua e poi prende vita la conclusiva "We",una corale ed intensa lettera di addio che diventa sempre più intensa...il piano sorregge il cadenzato ritmo della batteria di Hagar,mentre Gossard sperimenta distorsioni ed armonie mentre questo senso di 'liberazione' dall'oscurità incontrata in precedenza sembra farsi sempre più presente ed intenso.

e poi,improvvisamente...STOP.

La canzone si spezza,si interrompe di colpo,ed un messaggio tra il serio ed il faceto ci fa ritrovare davanti a questa casa,con la porta sbattuta in faccia,mentre il pomeriggio sta finendo ed il grigio del brutto tempo sembra arrivare da lontano.

I Brad regalano un prima prova acerba ma convincente : dal punto di vista compositivo ci si trova davanti a qualcosa che è contemporaneamente appena abbozzato e ben definito.
I quattro componenti lavorano all'unisono ma sembrano lasciare sempre un qualcosa indietro che spesso fa assomigliare le canzoni a jams più che a songs vere e proprie.

Ciò nonostante,la delicatezza di "Buttercup" ed il groove di "Nadine" e "Raise Love" rimangono in testa,al punto di voler di nuovo rientrare in quella casa,fatta di storie,di maschere (le stesse che compaiono sulla copertina o altre???),di riflessioni e momenti irripetibili.

Sono anni che,tramite il mio walkman,entro in quella casa,ed ogni volta,le atmosfere di questo disco mi danno l'idea che si possono raccontare storie e solleticare l'immaginario pur non essendo delle divinità musicali,ma semplicemente abili musicisti che,sulla scia dell'improvvisazione,sanno magicamente tirare fuori un bel connubio di atmosfere e partiture,senza per forza essere grandi rockstar (ironia della sorte,Gossard lo è già diventato con "Ten") che abitano in palazzi alti e lussureggianti.

A volte bastano degli ottimi artigiani che abitano in una casa vecchia quanto il mondo.

lunedì 25 gennaio 2016

QUEEN "Sheer Heart Attack" (1974)






1. "Brighton Rock"
2. "Killer Queen"
3. "Tenement Funster"
4. "Flick of the Wrist"
5. "Lily of the Valley"
6. "Now I'm Here"
7. "In the Lap of the Gods"
8. "Stone Cold Crazy"
9. "Dear Friends"
10. "Misfire"
11. "Bring Back That Leroy Brown"
12. "She Makes Me (Stormtrooper in Stilettos)"
13. "In the Lap of the Gods... Revisited"

Parlare dei Queen è un azzardo,sempre.

Le operazioni di commercializzazione spasmodica che in seguito alla morte di Freddy Mercury si sono susseguite ad opera soprattutto di Brian May e Roger Taylor me li hanno fatti anche un po' stare sui coglioni per un periodo.

Ma sarei veramente una carogna se non ammettessi che hanno influenzato la mia vita non poco,soprattutto quando riuscii ad ascoltare i primi lavori della band.

Il primo album che ebbi in mio possesso fu "A Kind Of Magic",che non mi stupì molto se non in pezzi come "Gimme The Prize" o la superconosciuta "Princes Of The Universe".
Poi fu la volta di "The Miracle",che apprezzai non poco,a partire da "Khassoggi's Ship" a "Was It All Worth It"...poi il live a Wembley,e "Greatest Hits I",dove mi colpì in modo quasi ossessivo "Killer Queen".
Ok,sì va bene,c'era anche "Bohemian Rhapsody"...ma niente mi entrò in testa come "Killer Queen";quando poi scoprii che il testo parlava di una prostituta dell'alta società,capii ancora di più l'aria scherzosa ed altezzosa della canzone.

In quella canzone (così come in molte del Greatest Hits) ascoltai quello che non avevo mai sentito da un gruppo come i Queen...l'abitudine che avevo acquisito dal loro periodo '80/'90 non aveva reso giustizia al gruppo...ed in effetti apprezzai in seguito molto di più le canzoni del periodo '70/'80 che non le successive.

Quello che mi folgorò fu il piglio quasi barocco e pomposo associato a melodia e riff granitici e duri,
e quando ebbi in mio possesso "Sheer Heart Attack" ebbi conferma di ciò che avevo intuito : questo gruppo faceva quello che voleva e lo faceva con una classe ed una 'pulizia' mai sentite prima.

Ma l'aspetto che mi affascinò di più di questa band,fu l'assoluta tendenza a 'rappresentare' le canzoni,riuscire a raccontare storie come in uno spettacolo teatrale pieno di luci,melodia e 'profondità'.
Una personalità come Freddy Mercury è entrata di diritto nel mio immaginario musicale,e lo ha fatto mantenendo sempre un alone di mistero...chi era Mercury?
Un teatrante o una maschera volutamente scherzosa e provocatoria?
Indifferente alle malelingue,sfrenato e sempre sulla passerella oppure un grande attore che la dava a bere a tutti?

...forse entrambe le cose...mi ricordo di un'intervista,nella quale Mercury apostrofò sè stesso,ridendo come una scolaretta,dicendo : "Sono una puttana musicale amico!Non ci posso fare niente!"

...e non riuscii a capire se lo sguardo sorridente celava una maschera di solitudine e tristezza (quasi un escamotage per farsi vedere inattaccabile alle critiche) o era esattamente così che si presentava...un bizzarro menestrello che oscillava tra tute in lurex e look macho con i baffetti,da uno stile totalmente glam ad un tocco hard and heavy che lo trasformava in un frontman duro e senza macchia...le sue ineccepibili (ed inimitabili) doti vocali unite al suo trasformismo,in grado di resistere alle mode ed al tempo,lo rendevano un'ideale trait de union tra David Bowie e gli artisti tipicamente rock degli anni '70...non aveva il fascino animalesco di un Robert Plant,nè l'incazzatura di un Roger Daltrey,eppure il suo magnetismo ed il suo eclettismo lo rendevano l'ideale connubio tra mondi diversi e distanti...nella sua voce risplendeva l'eco dell'opera teatrale ed il rombo granitico del rock.

Entrare nell'universo di "Sheer Heart Attack" è un viaggio attraverso composizioni sia eccentriche (quando la firma è soprattutto di Mercury,dove si sconfina spesso nel classico e nel barocco) che da pugno in faccia (quando ad esempio la scrittura è di Brian May),con attimi di respiro ed incursioni in acustico.

E' decisamente un album rock (forse il più rock del primo periodo dei Queen),ma contaminato anche da notevoli accorgimenti in fase produttiva (overdubs di voci,echo e delay anche nelle tracce di chitarra...)

La cavalcata di "Brighton Rock" che apre il disco contiene una serie di riff che potrebbero da soli comporre altrettante canzoni,ma invece si dipana in 5 minuti di rock selvaggio,dove Mercury si divide in due distinte persone (ragazzo e ragazza) dando un'aria quasi operistica alla canzone che sfocia in un ritornello che più melodico non si può per poi spostarsi in un intermezzo metal,con tanto di interludio,per poi riprendere come era iniziato,senza risparmiare un finale che farebbe invidia a qualsiasi gruppo stoner.
Dopo la tempesta,arriva la già citata "Killer Queen".
Se prima il duetto Mercury/May si equivaleva in fatto di protagonismo,qui a fare la parte del leone è Freddy,che con la sua interpretazione spazza via qualsiasi dubbio su chi sia il leader della band...il suo gusto per il barocco (soprattutto nell'accompagnamento) è (volutamente) sopra le righe,ma non distoglie l'attenzione dal pezzo,che con il suo sfumare in finale dà spazio a "Tenement Funster",scritta e cantata dal batterista Roger Taylor.

Qui i Queen mostrano,oltre che un talento compositivo individuale non da tutti (forse solo gli Zeppelin sapevano fare altrettanto),la passione per il 'tentato medley'..."Tenement Funster",con il suo incedere da ballad acustica che diventa una hard rock ballad,si collega a "Flick Of The Wrist",altra composizione di Mercury,un pezzo che alterna oscurità e quasi solennità a rock,pop,opera,classico e riff che potrebbero piacere ai Sabbathiani;a sua volta il pezzo si collega a "Lily Of The Valley",dove il pianoforte di Mercury e la coralità dell'accompagnamento vocale tornano a posare la quiete laddove "Flick Of The Wrist" aveva scavato un segno a suon di rock.

In un certo senso questa triade è quasi intesa come una mini operetta,che dalla ribellione (Tenement Funster) arriva all'oscurità e alla ripresa (Flick Of The Wrist) per poi trovare la pace (Lily Of The Valley).

Da questa ennesima quiete arriva "Now I'm Here",forse il pezzo più rock inteso come susseguirsi di riff,strofe e momenti melodici e duri (anche qui c'è la firma di May);c'è un certo 'american taste' in questo pezzo,supportato soprattutto da una sezione ritmica solida e compatta.

"In The Lap Of The Gods" è una ballad operistica come ce ne sono poche:voci angeliche e blues che si intersecano in una eterea canzone dal sapore mistico,il che abitua già al fatto che dopo potrebbe esserci l'ennesima botta.

Ed infatti arriva sulla faccia "Stone Cold Crazy",a mio parere la canzone più hevy metal della band,che deve forse molto ai Black Sabbath e che vanta un arrangiamento rock n' roll vecchio stampo adattato ad un sound pesante,veloce,inarrestabile.
Una canzone così non la senti spesso...veloce ed aggressiva,come essere in una macchina senza freni che procede a tutta velocità andando a sbattere lungo i lati di un vicolo troppo stretto...la chitarra che ha un suono metallico si sposa ad un basso quasi stoppato,è tutto un pezzo unico che si rompe qua e là grazie agli stop and go e si ricompone,respirando affannosamente mentre Mercury accompagnato solo dal drumming di Taylor si dimena in un boogie a tutta velocità,tenendo sempre alta la tensione fino al coretto all'unisono che spiazza completamente l'ascoltatore.

Altra botta,altra pausa.

"Dear Friends",che potrebbe fare il paio con "Love Of My Life" (sul successivo "A Night At The Opera"),passa veloce ed armoniosa,lasciando spazio a "Misfire",un breve quadretto pop e prima composizione del bassista John Deacon,che si cimenta anche nelle parti di chitarra,dimostrando (se mai ce n'era bisogno) di quanto eclettismo e risorse compositive disponessero i Queen.

"Bring Back That Leroy Brown" (che allude al cantautore Jim Croce),anticipa (assieme a "Dear Friends") l'altmosfera giocosa di pezzi come "Lazy On Sunday Afternoon" e soprattutto "Seaside Rendezvous" sul successivo "A Night At The Opera".
Il pezzo in sè è un assieme davvero eccentrico ma splendido di musica americana vecchio stile e molto 'western' (l'uso del banjo e dell'ukulele),che sembra quasi un saluto all'ascoltatore,un modo per dire "...piaciuto lo show?"...è come ritrovarsi in uno di quei teatrini di vaudeville dove ne vedi di tutte ed aspettarsi un finale esplosivo con strasse,lucine,paillettes e coriandoli mentre la squadra di attori esce a prendere gli applausi degli spettatori per poi scappare velocemente dietro il sipario che cala.

...ma dopo il sipario c'è ancora qualcosa.

Improvvisamente sul sipario cala uno schermo nero...
...ed ecco arrivare "She Makes Me (Stormtroopers in Stilettos)",una lenta canzone piena di echi e chitarre acustiche cantata da Brian May e scritta da lui e Deacon.
La canzone ha un senso di spazio e vuoto,dove le melodie si perdono e si confondono con sirene di polizia e rumori di chiusura di negozi e bar...la serata sta finendo,è ora di tornare a casa...improvvisamente il teatro è diventato un film,dove sui titoli di coda suona "In The Lap Of The Gods...Revisited",versione riveduta e corretta della precedente,con un incedere più epico ed 'english' dell'originale,e con un finale da coro all'unisono che sarà poi una pietra miliare melodica nella storica versione live di Wembley.

Quando ascoltai il disco per la prima volta,rimasi sconvolto da così tanti cambiamenti di atmosfera,e dall'incredibile magia di riuscire a dare al tutto un'omogenea e caratteristica nota distintiva,che è comunque un'insieme amalgamato e ben oliato.

In questo disco non sono solo la voce ed il piano di Mercury a dipingere il quadro del disco,c'è il suono metallico e granitico di May,il drumming di Taylor,la costanza e serrata ritmica di Deacon.

E' un lavoro corale pur essendo per molti episodi il solito duello Mercury/May,ed è anche un album dove il rock viene contaminato in maniera totale da influenze più disparate,un concetto che almeno fino agli anni '80 è stato sviscerato in molteplici forme dalla band.

Quest'album faceva il suo ingresso nella mia collezione quando da poco ascoltavo il rock degli anni '70...inizialmente,dati i miei precedenti ascolti,mi aspettavo quello che avevo trovato su "A Kind Of Magic" e "The Miracle"...e rimasi sorpreso felicemente quando notai che non c'erano prepotenze operistiche o synth in primo piano,drummings ovattati e dal sapore elettronico...vi trovai una band con un sacco di idee,fresca,giocosa e al tempo stesso seria e compatta..."Killer Queen" mi rimbalza ancora in testa,la canticchio tra me e me,e penso che a Freddy Mercury piacesse rivedersi in quel "dynamite with a laser beam" che tanto descriveva agli altri.








lunedì 18 gennaio 2016

Premessa : questo non è un blog critico.

Prima di iniziare a scrivere (cosa che farò quando ne avrò voglia) sui dischi che mi hanno influenzato,ci tenevo a precisare una cosa,ben sapendo che non frega un cazzo a nessuno :

QUESTO NON E' UN BLOG CRITICO.

Semplicemente è uno sfogo,un modo di parlare di me attraverso i dischi o gli artisti che mi hanno dato e che continuano a darmi qualcosa ogni volta che li ascolto.

Non sono un professore,tantomento un opinionista credibile,sono troppo 'di parte' e a qualsiasi critica fatta su questo blog e sui dischi di cui parlo rischierei solo di tentare di 'portare acqua al mio mulino' cercando di giustificare ogni singola scelta di pubblicazione.

Queste pagine sono più dettate da uno spirito emotivo che critico,sono più scritte in base a sensazioni,gusti personali,idee ed ideologie,pertanto chiedo a qualsiasi 'letterato musicale','guitar hero','studente di conservatorio' o 'elitario musicista del cazzo che crede che quello che dice ed ascolta lui sia il sacro Graal delle sette note' di astenersi dal commentare,o,al limite,di andarsene a fare in culo subito e di corsa.

Me ne frega assai di sapere come sono stati arrangiati i pezzi,
me ne fotto altamente dell'uso delle pause,dei tempi,e di tutte quelle cose che fanno di molti degli accademici col cervello impregnato di intellettualoidi concetti da direttore d'orchestra.

Anche perchè la maggior parte dei dischi di cui parlerò sono :

1) per la maggior parte albums che a molti 'farebbero cagare';

2) vari,perchè non si parla solo di albums,ma di live non ufficiali,bootlegs,compilation e raccolte di b-sides ed inediti,addirittura le classiche 'miste' che mi facevo in cassetta e che mi sono riversato su cd solo perchè sono un maniaco musicale;

3) sono tappe,tappe che hanno segnato momenti importanti,felici,tristi,depressi ed entusiasmanti della mia vita,tanto che,magari,in un delirio di 'presunta onnipotenza intima',potrei anche schiaffare qualcosa fatta negli anni con le bands e gli amici con i quali da sempre condivido questa passione.

pertanto,a chiunque legga questa premessa,chiedo con cortesia (ma neanche troppa),di farsi e farmi un favore : se non vi interessa,vi schifa,o vi 'insulta intellettualmente' (?),semplicemente non leggetelo.

Ma se vi interessa,vi incuriosisce,o magari vi mette qualche pulce nell'orecchio,allora fatene l'uso che credete sia più opportuno.

La musica è la mia vita,ed ogni vita può essere simile nelle sue esperienze,ma mai uguale,a quella di altri...forse è solo un modo per comunicare,oppure è solo un modo per esprimere quella frustrazione che da sempre mi attanaglia perchè vorrei che quello che ha cambiato la mia vita interiore (sempre in meglio) potesse 'cambiarla' (anche se non so in che modo) agli altri.

buona lettura.